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Della pioggia e del “decorare”

  • Immagine del redattore: Tonari no Tokyo
    Tonari no Tokyo
  • 3 gen 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

30 settembre 2018 (日)

Shibuya e la pioggia.

Questo è il mio quarto giorno di vita giapponese e, nonostante io abbia davanti ancora un mese, mi capita già di pensare al poco tempo che mi separa dal kikoku 帰国, dal rientro in patria.

Sono venuta a Tokyo con l’obiettivo di trovare un lavoro qui, per poter finalmente vivere in quella che, per me, è sempre stata casa fin dal mio primo atterraggio a Narita , in un luglio di nove anni fa che mi fece scoprire subito il vero significato di “caldo afoso”. E questo, per una figlia della Serenissima Repubblica, ha dell’incredibile.

Oggi Shibuya si è portata l’ombrello.

Nonostante le previsioni del tempo, che garantivano che un tifone si sarebbe abbattuto sull’arcipelago, stamattina Tokyo è stata salutata da un cielo plumbeo, beffardo, quasi come stesse sghignazzando di fronte a tutti quelli che ieri hanno fatto scorta di beni di prima necessità per rinchiudersi in casa oggi.

E in effetti non c’è tutta la gente che ci si aspetta di trovare a Shibuya di domenica: in giro si vedono soprattutto turisti, che per nulla al mondo sarebbero rimasti dentro le loro camere d’albergo. Hanno fatto bene: Tokyo, con la pioggia, è magica.

La pioggia ha il dono naturale di rendere più vividi i colori, ma solo i colori del Giappone riescono a scaldarmi così tanto.

Oggi sono uscita dalla guesthouse di Ikebukuro con l’idea di passare a comprare la piastra per capelli più economica che avrei trovato da Bic Camera, visto che quella italiana, a quanto pare, ha un voltaggio troppo potente per gli standard giapponesi e, appena ho provato ad attaccarla a una presa, non si è nemmeno degnata di far lampeggiare la sua lucina rossa.

E, ovviamente, per scrivere.

Scrivere è assolutamente una cosa che mi ero ripromessa di fare quando sarei giunta nel Sol Levante. Il mio lirismo, che a volte si nasconde per non risultare stucchevole (chissà perché questo timore recondito, fra l’altro?), esce allo scoperto con entusiasmo quando incontra il Giappone, e chiede a gran voce di essere espresso e descritto in forma scritta. E chi sono io per tenerlo al guinzaglio? :)

Dopo aver ordinato un Frappuccino al matcha, quindi, mi sono seduta in una parte laterale dello Starbucks che si trova dentro lo Tsutaya di Shibuya e ho cominciato a scrivere subito, come colta da una frenesia, buttando di tanto in tanto lo sguardo fuori dalle finestre e osservando tanti ombrelli, la maggior parte in plastica comprati nei konbini, che sfrecciano lungo le larghissime strisce pedonali di uno dei quartieri più densamente popolati del Giappone.

Al mio rientro in guesthouse, infine, la sorpresa.

Salgo le scale con calma, sapendo già di trovare le mie pantofole di fronte alla porta della camera, come ogni sera. Mi avvicino e, oltre alle pantofole, trovo un sacchetto da parte (ci scommetto!) di Makoto, uno dei ragazzi che lavora alla guesthouse con cui ho legato fin dal primo giorno. Con lui ho parlato molto di Miyazaki, visto che pare che il maestro viva qui vicino; Makoto, quindi, sapendo del mio amore per le opere dello Studio Ghibli, ha pensato di farmi trovare sulla maniglia della porta due anpan (dei panini dolci ripieni di anko, cioè marmellata di fagioli rossi) a forma di Totoro, accompagnati da un biglietto che recita “Otsukaresama deshita, from Satsuki e Mei”. Otsukaresama deshita お疲れさまでした è una di quelle tante espressioni giapponesi che non sono traducibili, non tanto perché non esista una traduzione letterale, quanto perché va a toccare direttamente le corde dell’animo giapponese, affondando le mani in quello che è il sostrato culturale. Otsukaresama (letteralmente “Si è stancato molto!”) viene detto a una persona che ha lavorato molto e che, in generale, ha svolto un’impresa impegnativa; da specificare come, a tal proposito, l’emotività giapponese faccia rientrare il concetto di “impegnativo” in una scala larghissima, che parte da un impegno minimo (Otsukaresama deshita è la frase che ti dice la commessa di un negozio dopo che hai provato un vestito!) fino ad arrivare a un impegno estremo (un esame importantissimo, la scalata del Monte Fuji…).

È in tutta questa giapponesità che Makoto mi ha commossa. La tenerezza con cui ha voluto firmare il biglietto coi nomi delle due protagoniste di Totoro, l’attenzione che ha usato nello scrivere “e” anziché “and”, per farmi vedere che un po’ di italiano lo mastica…

Penso che, in quell’immensa casa bianca che è la nostra vita, i nostri valori siano l’arredamento, ma le decorazioni sono date dalle piccole cose. La rendono più piacevole e, soprattutto, più nostra.

E i giapponesi, in quanto a decorazioni, siano esse reali o metaforiche, sono dei maestri.


♪ Florence and the Machine, Sky Full of Song


 
 
 

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