top of page
  • Immagine del redattoreTonari no Tokyo

Umiltà, o dell’abbassare la testa

02 Giugno 2019 (日)

È bello poter essere un ponte tra due culture.

Questa sensazione è stata molto vivida questa settimana, che mi ha vista presente all'Ambasciata Italiana di Tokyo per l’organizzazione della Festa della Repubblica, qui fissata per giovedì 30 maggio, e che mi ha impegnata per tre giorni, culminando in un giovedì intensissimo in cui sono stata in piedi per sedici ore consecutive e ho camminato quasi ventimila passi (grazie, contapassi del Huawei).

Sono stati giorni in cui mi sono calata maggiormente nella realtà italiana; una volta messo piede fuori dell'Ambasciata, però, si ritornava in fretta al Giappone, anche in questa Tokyo così occidentale negli edifici ma così intrinsecamente giapponese nell'animo.

La grande verità del vivere in un luogo che si considera casa è che ogni giorno ti assorbe, facendo sì che, a poco a poco, tu costruisca la tua quotidianità e finisca col vedere ma non osservare.

Una cosa che è diventata uno dei miei mille leitmotiv quotidiani è una raccomandazione che mi fece circa sei anni fa il mio relatore di tesi: “Non smettere mai di stupirti, Agnese, lasciati abbracciare dal senso di sorpresa”. È tenendo a mente questa cosa che vivo ogni giorno, anche nei giorni in cui la tristezza prende il sopravvento e in cui sento che la mia forza vacilla. Ricordo di aver citato, qualche mese fa, Claudio Rossi Marcelli, giornalista e attivista LGBT che cura la rubrica Dear Daddy per L'Internazionale: disse che essere felici è un secondo lavoro, ma che in certi giorni “sollevare quel nuovo, piccolo mattoncino di felicità quotidiana richiede tutto me stesso”. Qualche volta, quindi, ci si può dare serenamente malati e optare per il terzo lavoro, “sembrare felici”, che è un po' un esercizio di stile per l'esistenza stessa. Questo, ovviamente, non esclude le altre emozioni, né, tantomeno, le colpevolizza (tant'è che soffocare le emozioni è controproducente e dannoso); semplicemente, è essere resilienti, è concedere a se stessi l'opzione meravigliosa di sorridere e di riorganizzare la propria mente nei momenti difficili.

Questi pensieri fluttuavano veloci nel dopopranzo, mentre camminavo a passo veneziano verso la stazione del mio quartiere (Hibarigaoka ひばりが丘, Tokyo-Ovest), decisa a spingermi verso il centro della città per poter scrivere in mezzo al caos. È durante quel mio camminare pensieroso che, alzando lo sguardo, mi sono trovata quasi addosso a una signora, la quale ha abbassato la testa in un breve inchino e si è spostata a sinistra per evitare lo scontro altrimenti inevitabile. Ed è lì che ho sorriso: ho pensato alla bellezza dell'inchino giapponese, che ogni giorno viene ripetuto centinaia di volte in mille situazioni diverse: per salutare, per evitare di andare addosso a qualcuno, per ringraziare, per cedere il posto a qualcuno, per scusarsi… Le occasioni per fare un inchino sembrano non finire mai, in Giappone, ed è stupenda l'umiltà che mette l'Altro in una condizione di non-imbarazzo, che evita l'egocentrismo e che spinge a voler essere gentili di rimando.

Ho sempre pensato che la bellezza debba generare altra bellezza, altrimenti resta fine a se stessa, come un disegno bellissimo chiuso dentro un cassetto. È quindi pensando a quell'inchino, alle parole del mio relatore e a quelle di Claudio Rossi Marcelli che sorrido, sempre grata di ogni giorno che è scoperta rinnovata.

♪ Faith no More, Epic


99 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page